Accettazione

c’è un confine sottile tra l’accettazione e la rassegnazione. E’ lo stesso confine che separa la maturità dall’adolescenza, o se volete la pace, o qualcosa che ci si avvicina, dall’inquietudine…

E’ un confine che separa tantissimi opposti è che, ancora oggi, a quasi 35 anni faccio una gran fatica a superare.

Mi guardo indietro, anche solo di un paio di anni, e mi trovo assai più povero, più vuoto, più fermo e più ci penso più questo mi butta giù. Continuo a ripetermi che devo rassegnarmi al fatto di essere cresciuto, di avere altri impegni, altre energie, ed è qui che sbaglio, è questo che mi paralizza e mi rende triste. Io devo accettare di essere cresciuto, che è cosa diversa…Perchè è il corso della vita, perchè è stato ed è, per tanti versi, un anno tremendo, un anno di lotta, di malattie, di tracolli, di disperazioni, ma è anche un anno di costruzione, di sorrisi, di progetti, di prove.

Ho come l’impressione che, lentamente, io mi stia  liberando dall’assillo del dover essere, spostandomi, con piccoli passi, verso che ciò che vorrei essere, al di là di tutte le scuse che ogni volta trovo per non mettermi in gioco.

La rassegnazione mi paralizza, l’accettazione mi rende sereno e tranquillo per cercare un pò più in là.

Ho troppo risentimento rispetto a chi fa cose che io non faccio più, come se il non farle mi rendesse piccolo ed insignificante, ed invece non è altro che una scelta, la scelta di non farle e di fare altro, di costruire un altro edificio, di lavorare ad un altro progetto, di cambiare pelle ancora una volta, sapendo che ne ho ancora tante da cambiare…

Spero di saper varcare quel confine, di non trovarmi ad odiare i ragazzini perchè sono ciò che anche io sono stato e non sono più. Spero di trovare per ogni anno della mia vita il senso profondo, o quanto meno il mio senso, di quell’anno e di quello soltanto, perchè in questo 2011 di merda ho visto troppo da vicino quanto è fragile la vita, ed è troppo fragile per essere spesa nel rimpianto o nel rimorso.

Open

open

Ieri vagavo per via Luca Giordano come un’anima in pena, ero solo, senza l’ormai inseparabile passeggino nel quale spingo, ormai da 14 mesi il mio piccolo principe. Mi sono trovato improvvisamente con le mani libere e quasi non sapevo cosa farmene…Ci ho pensato un po’ e mi sono ricordato di quando con le stesse mani riuscivo addirittura a reggere e leggere un libro.

Mi sono detto: “ora ci provo” e così sono entrato dall’ odiato/a Fnac e lì tra gli ultimi libri, un po’ tutti uguali, messi sullo scaffale all’ingresso, chi ti trovo?

Con un bel faccione tondo, un filo di barba ed un filo più sottile di capelli trovo lui, il mio vecchio amico AndrèeAgassi ad occupare l’intera copertina di un libro il “suo” libro “Open”.

Inizio a sfogliarlo con diffidenza, convinto di trovarci le solite cazzate autocelebrative ed invece tutt’altro.

“Esordisce con un odio il tennis…”Che detto da uno che per anni è stato n. 1 del mondo fa un pochino strano.

Leggo qualche pagina, poi mi allontano perché 20 euro per un libro, cominciano ad essere davvero tanti…Così mi dirigo verso la zona macchine fotografiche ad osservare corpi macchina che non avrò mai, poi torno da lui, da Andre, come se avessimo lasciato un set a metà.

Riprendo a leggere e mi ricordo di quanto scroccavo interi libri giù a La Feltrinelli, altri tempi, altro look ,(ora non ho un look), altri ritmi…Cmq mi prende quella strana eccitazione, quell’entusiasmo cdi quando trovo una bella storia, diquando intuisco che per 5 giorni quel libro, quel romanzo, saranno il mio unico obiettivo. Tornare a casa prima, cenare in fretta, far addormentare Corrado, tutto per tornare alla lettura.

Alla fine lo compro: 20 euri nuovi nuovi e passa la paura.

Esco dall’odiato/a Fnac e mi siedo su una panchina a leggere qualche altra pagina…

Non riesco a staccarmi, questo tizio, chiunque sia, (con tutto l’affetto non penso proprio che l’abbia scritto Agassi stesso), con la scusa di raccontare di Andre parla senza saperlo a me, ma non a me oggi, a me di quando avevo 9 anni e poi a 10-11-12-13….

E non riesco a non pensare a quanto i sogni dei bambini siano tutti uguali, perché anche io, che mettevo la palla dall’altro lato con cadenza bisettimanale, anche io sentivo la pressione, anche io guardavo gli occhi di mio padre a bordo campo, anche io piangevo per una sconfitta e anche io toccavo il cielo con un dito per un rovescio lungo linea.

Mi sono ritrovato improvvisamente sul campo polveroso del t.c. eden, con il sole a picco, in un 15 luglio da impazzire dal caldo, e mi sono sentito i piedi cotti dal mateco, il suo odore penetrare nelle narici, mi sono venuti in mente i 7/6 7/6 e i 6/0 6/0, presi e dati, gli allenamenti con i birilli, i pomeriggi, i giorni interi passati a chiedere: “posso giocare maestro? Posso giocare maestro?Posso giocare maestro?” Fino ad indurlo alla disperazione, tanto da dirmi “si”  e piazzarmi in un qualsiasi spazio vuoto, di un campo già pienissimo di piccoli invasati.

Ho ricordato le mie urla in motorino per la semifinale al t.c. Capodimonte, nello stesso anno in cui Cierro chissà come, giocava con Leconte, mi sono ricordato le troppe sconfitte dettate dall’emotività, mi sono ricordato dei ritorni dai torneri in auto con mio padre, dopo aver perso, quando sapevo che una mia piccola parola gli avrebbe fatto aprire il solito rubinetto: “tu non hai testa, tu sparacchi solamente ecc ecc…”. Ed ancora oggi quando parla di me mio padre, anche se prendo la racchetta in mano ogni 3 mesi, attacca con la stessa solfa e cazzo, mi fa imbestialire oggi come allora.

Che tu sia Agassi o Federico, cambia poco, scendi in campo e vorresti che quello fosse il tuo regno e ti affezioni ai calzettoni resi rossi dalla terra, elabori i tuoi piccoli rituali tipo fare una croce con la racchetta sul terreno prima della prima risposta, fissi l’avversario negli occhi per farlo incazzare, anche se all’apparenza  gli stati chiedendo scusa per un net…

E come Agassi anche io odio il tennis, lo odio per ragioni diverse, lo odio come si odia l’amato che non ricambia, come si odia una vecchia fiamma che ora a stento ti saluta e che pensi nemmeno si ricordi più di te.

“Open” è un gran libro, e non solo per chi ama il tennis, è un gran libro per chi sogna, per chi in ogni piccola gioia deve trovare anche una punta di amaro, giusto per non rendere troppo insopportabile la felicità.

Ieri sera ho chiuso a pagina 130 mi pare, crollavo dal sonno, ma ho fatto in tempo ad arrivare sull’erba sintetica del Cus, per rivedermi in un tuffo alla Becker sottorete, con l’avversario che dall’altra parte mi guarda stupido per il gran punto, lo stesso avversario che dopo il terzo set, vinto da lui, mi stringe la mano senza sapere quanto quella sconfitta sarebbe durata per sempre…

riflessioni sulla democrazia fotografica…

FotografoSi pensa alla parola “democrazia” e ti viene in mente qualcosa di giusto…Ma se lo associ all’aggettivo “fotografica”, ecco che d’improvviso appare un orda di pseudo fotografi armati di compatte, reflex, super-reflex da usare rigorosamente in automatico, come questa mattina al Vomero, in occasione di una di quelle manifestazioni indette da Fnac…Li chiamano concorsi fotografici.

Ecco, in questo caso, in questo settore, la democrazia è una cosa, a mio avviso, tutt’altro che positiva.

Lo confesso, per la verità non ne ho mai fatto mistero: mi hanno rotto i coglioni le maree di improvvisati delle fotografia. Inutile dirvi che lo sono anche io, ma cazzo, io me ne sono reso conto. Quando non sai come sistemare una luce, o come leggere un’esposizione, lo capisci che sei solo bravo a premere un pulsante, o no?

Evidentemente la risposta è no ed allora ecco venir fuori le seguenti categorie di fotografie:

1) le foto inclinate: che si riprenda un cane, una fontana o un sacchetto della munnezza, la foto deve essere in diagonale, fa molto figo e fa molto dinamico;

2) la foto in movimento: solo che a muoversi non è il soggetto, ma il “fotografo” che per l’occasione si trasforma in cacciatore, l’effetto è devastante;

3) la foto photoshop: in origine è una gran cacata, ma poi dopo 3 ore e mezza di photoshop, dopo aver cambiato livelli, contrasti, sfocature, fatto tagli ed eliminato un pò di gente superflua, ecco venir fuori il capolavoro;

4) foto alla gran fotografo di una volta: deve essere in bianco e nero, solo che le luci alte devono essere simili alla luce del tunnel divino e quelle basse più nere di un buco nero.

5) foto del vignettatore, la foto è normale, banale, in qualche caso fatta anche bene, però se non ci inserisci la vignettatura al computer non sei un vero fotografo.

Potrei continuare per ore e mi salirebbe ancor più l’incazzatura; incazzatura derivante dal fatto che la fotografia, da forma d’arte destinata a pochi attenti, esperti cultori, si sia trasformata nell’ennesima manifestazione del bisogno di apparire, di mostrare, nell’accezione più brutta che questi verbi possono assumere. Molti di quelli che oggi fotografano non raccontano, si autocelebrano e cercano consensi in chi guarda…

Ci sono cascato anche io nel tranello, ho fatto un paio di foto buone, ho trovato un cesso in cui attaccarle alle pareti e mi sono creduto un fotografo, per fortuna ho l’abitudine di rivedermi le cinque foto di merda che precedono quella buona e le 10 che la seguono, ed ho capito che premere un tasto e scrivere con la luce sono cose diverse.

La democrazia fotografica è avvilente, specie quando vedi reflex da 1000 euro tra le mani di chi non sa cosa farne.

L’immagine che mi resta negli occhi è quella di un tipo oggi fermo a via Scarlatti, con la sua digitale in mano, se ne stava fermo, aspettando che una foto gli si buttasse nella macchina.

Sono stato contento di aver lasciato la mia reflex a casa e di aver usato gli occhi, per fare tante foto, alcune belle, alcune brutte, ma di averle fatte per me, per me soltanto e non per attendere che qualcuno, di quella democratica società degli pseudo fotografi, mi donasse il suo plauso…

Buon click a tutti…